Anonimato in rete - considerazioni a quattro mani.

Gli pseudonimi fanno parte di noi, ci servono, ci sono sempre serviti.
In battaglia, i nomi scompaiono ed esistono solo gli pseudonimi. È l'unico modo per evitare le rappresaglie sulle famiglie dei combattenti.
Nell'arte, gli pseudonimi sono la firma che, celando l'identità dell'autore, permette la libera espressione del pensiero. Permettono l'arte stessa.
- Nessuno (Ulisse)
- Pepito Sbazzeguti (Giuseppe Bottazzi)
- Nikolaj Korpanov (Michele Strogoff)
- Luther Blissett (pseudonimo collettivo)
- Caravaggio (Michelangelo Merisi)
- George Orwell (Eric Arthur Blair)
- 007 (James Bond)
- Amò (nomignolo amoroso molto diffuso)
- Unabomber (Theodore John Kaczynski)
- Freddie Mercury (Farrokh Bulsara)
In alcuni casi lo pseudonimo di viene attribuito dagli amici al bar o sui banchi di scuola. In altri casi è una libera scelta.
Viviamo di pseudonimi, da sempre.
L'anonimato è una necessità umana e osteggiarlo è futile.
CB
Anonimato in rete - considerazioni a quattro mani.
di Vitalba Azzollini e Christian Bernieri
C’è una relazione complicata, per voler usare un linguaggio social, tra la tutela dei dati personali e l’uso di account con nomi di fantasia da parte di alcuni utenti delle piattaforme virtuali. Lo dimostrano alcuni recenti episodi, l’ultimo dei quali è quello che ha coinvolto l’assessora alla Famiglia, Giovani, Comunicazione e all’Educazione Digitale – paradossalmente, proprio all’educazione digitale - del Comune di Lecco, Alessandra Durante.
I fatti
Lo scorso 29 giugno è emerso che “Membro anonimo 582” – account attivo su un gruppo Facebook cittadino – era in realtà la stessa assessora che, coperta da quel nome di fantasia, aveva insultato un cittadino. Quest’ultimo si era limitato a segnalare il dissesto delle piastrelle di un marciapiede. Ma l’account fake, cioè Durante, l’aveva accusato di voler “sentirsi qualcosa”, paragonando il suo tono a quello “di un alunno di terza elementare”. Come rilevato da Fanpage, sono stati gli amministratori del gruppo a svelare pubblicamente l’identità dell’autrice del commento: «così hanno scoperto che dietro il misterioso hater si nascondeva in realtà una figura istituzionale, ovvero l'assessora Durante, con delega, tra le altre, proprio ai rapporti con i cittadini e all'educazione digitale».
La vicenda è stata trattata dai media come un caso di cyberbullismo “istituzionale”, atto a rivelare una contraddizione tra il ruolo rivestito da Durante e il suo comportamento online.
La replica dell’assessora è arrivata tramite un video e post su Instagram in cui ha definito il suo intervento “molto prepotente e maleducato” e si è scusata “senza giustificazioni”, riconoscendo di essere incorsa proprio “in quei comportamenti che da tempo analizziamo come atteggiamenti da limitare o eliminare”. Poi ha presentato al sindaco le proprie dimissioni.
Privacy e account fake
La vicenda è stata commentata dai media sotto il profilo della incoerenza tra il ruolo rivestito e la condotta realizzata, con l’uso di un profilo fake per delegittimare le critiche sollevate sull’operato della giunta. Tuttavia, l’accaduto merita di essere analizzato anche per un altro profilo: il rapporto tra privacy e “anonimato” digitale, da un lato, e diritto all’informazione e alla trasparenza dall’altro. In particolare, può essere divulgata pubblicamente l’identità reale di chi utilizza pseudonimi online? E cosa accade quando chi usa profili fake sui social network per offendere e insultare è un soggetto pubblico o che ricopre cariche istituzionali?
Ai sensi del Gdpr, il regolamento europeo per la protezione dei dati personali, per trattare dati altrui, quindi anche per divulgarli sui social, è sempre necessario che la finalità perseguita sia legittima e fondata su un’idonea base giuridica (consenso dell’interessato, obblighi derivanti da un contratto, salvaguardia della vita o dell’incolumità altrui, compiti di interesse pubblico, legittimo interesse). I giornalisti possono comprimere le regole in tema di privacy nell’esercizio del diritto di cronaca, contemperando il diritto individuale alla protezione dei dati con il diritto collettivo all’informazione, purché la notizia che pubblicano sia vera o verosimile, di interesse pubblico e presentata in modo misurato, selezionando i dati da pubblicare sulla base dei principi di necessità e minimizzazione.
L’approccio tecnico suggerisce di valutare la legittimità del trattamento: per capire se la divulgazione dell’identità di account sotto pseudonimo sia legittima, bisogna chiedersi su quale base giuridica si fondi la rivelazione. È difficile che il fine di “smascherare” l’autore di post diffamatori o offensivi e insultanti possa rientrare tra le basi previste dal Gdpr. E anche qualora i dati associati all’account di fantasia fossero in qualche modo reperibili sul web, la loro diffusione potrebbe violare la normativa privacy.
Ma esiste anche un altro criterio per verificare la liceità della divulgazione, un modo altrettanto corretto e decisamente più immediato: occorre immedesimarsi nei panni della persona alla quale i dati si riferiscono ed immaginare ciò che avrebbe fatto se fosse stata informata che l’anonimato non era tale, che la sua identità avrebbe potuto essere svelata in modo arbitrario. Si sarebbe fidata della protezione offerta da un gruppo Facebook e dai suoi amministratori? Con un minimo di onestà intellettuale, la risposta appare scontata ma molti preferiscono ignorare questo criterio e lambiccarsi nelle pieghe di una normativa, il GDPR, che non conoscono e che provano goffamente a maneggiare. In pratica, a buttarla in caciara.
Acquisire dati in un contesto dove una persona ha deciso di presentarsi con nome e cognome non renderebbe lecito il loro utilizzo per renderla riconoscibile in un ambito diverso, dove la persona stessa è sotto pseudonimo. Come affermato anche dal il Garante privacy, «i dati personali presenti sui social network, o comunque accessibili online, non possono essere utilizzati liberamente e per qualunque scopo, solo perché visibili a una platea più o meno ampia di persone».
Privacy e soggetti istituzionali
Le cose si complicano quando oggetto di divulgazione siano i dati di soggetti che ricoprano un ruolo pubblico: per essi la soglia del diritto alla privacy si abbassa sensibilmente, ma non scompare affatto. Se una figura istituzionale usa un account anonimo per intervenire nel dibattito civico, soprattutto in modo offensivo o manipolatorio, l’interesse collettivo a conoscere la sua identità prevale sul suo diritto alla riservatezza?
In questo caso, entrano in gioco due diritti apparentemente contrapposti che devono essere contemperati: da un lato, quello alla tutela della privacy, garantito dalla relativa disciplina, dall’altro lato, il diritto dei cittadini a essere informati, di cui agli articoli 10 CEDU e 21 Cost.. Il Garante per la protezione dei dati personali ha chiarito in passato che la divulgazione di dati personali di soggetti pubblici, nell’ambito dell’esercizio del diritto di cronaca, può avvenire quando vi sia un interesse pubblico prevalente, purché nel rispetto del principio di necessarietà, proporzionalità ed essenzialità. In questo caso specifico, è stato esercitato il diritto di cronaca da parte degli amministratori del gruppo che hanno divulgato il nominativo dell’assessora coperta da pseudonimo? Se ne dubita molto.
Sebbene nella rivelazione possa ravvisarsi un qualche elemento di cronaca, i gestori del gruppo non hanno agito in qualità di giornalisti. In altre parole, il diritto di cronaca costituisce una scriminante quando è esercitato da cronisti, appunto. Solo in questo caso, infatti, trova applicazione il codice deontologico della professione giornalistica che, quando applicato, funge da guida per contemperare il diritto di cronaca e gli altri diritti antagonisti. Di conseguenza, l’interesse pubblico per la notizia non basta a giustificare la deroga alla tutela dei dati personali di chi è oggetto della notizia stessa.
Ma anche laddove si volesse ritenere che gli amministratori del gruppo abbiano agito al fine di fornire informazioni utili alla collettività locale, la loro divulgazione configurerebbe comunque un trattamento illegittimo. Infatti, a differenza di altri personaggi pubblici, per un politico resta fermo il confine tra vita privata e vita istituzionale. Nel gruppo cittadino l’assessora stava agendo sul piano privato. Con la conseguenza che l’interesse pubblico alla rivelazione della sua identità retrocede rispetto alla tutela della sua privacy.
Ricordiamolo, la Durante si è fidata di un sistema che l’ha tradita.
Per capire chi l’abbia tradita è necessario valutare le ragioni che hanno portato alla sorprendente divulgazione dei suoi dati.
Si può pensare che la Durante sia talmente sprovveduta da essersi fidata di un sistema di anonimizzazione inefficace? Non proprio.
La pubblicazione in forma anonima nei gruppi Facebook è descritta a questa pagina
Tale funzione è presentata come uno strumento per favorire la libertà di espressione, per pubblicare anonimamente il proprio pensiero e, finché questo non sarà vietato, resta lecito utilizzarlo e ciascuno ne può usufruire pienamente e legittimamente. Ogni considerazione relativa ai contenuti pubblicati è pretestuosa e esula dal discorso (caciara).
Lo strumento stesso della pubblicazione anonima crea nell’utente quello che si definisce “affidamento”, e non si può prescindere da esso senza compromettere irrimediabilmente la buonafede e la correttezza.
Facebook aggiunge ai termini di uso una nota: “Se partecipi in forma anonima… il nome e la foto del tuo profilo principale saranno comunque visibili agli amministratori, ai moderatori e ai sistemi di Facebook, al fine di proteggere i gruppi e garantire la conformità ai nostri Standard della community.”
Così facendo, Facebook rafforza l’affidamento degli utenti, circoscrivendo molto le ragioni che giustificano la visibilità dell’identità di un post anonimo e, di conseguenza, l’utilizzabilità di tali informazioni.
Ma allora, l’attenzione e l’analisi si sposta altrove: perché l’amministratore del gruppo Facebook ha deciso arbitrariamente di utilizzare le informazioni a cui ha accesso per “sputtanare” – ci si consenta il francesismo - un utente, ben sapendo che ciò gli è precluso e che le uniche finalità per le quali può vedere quei dati sono totalmente differenti? Torna qui un concetto che abbiamo espresso sopra: dati personali conosciuti a determini fini non possono essere utilizzati a fini diversi.
In conclusione, un amministratore pubblico che ha la delega per promuovere comportamenti digitali responsabili non può e non deve comportarsi in modo irresponsabile, usando quegli stessi strumenti per offendere, ancorché sotto falso nome. Ma, senza voler fare alcuna graduatoria tra condotte violative, chi non osserva disposizioni in materia di protezione dei dati personali, nonché termini e condizioni della piattaforma su cui si è amministratore di un gruppo, non può dirsi di certo migliore.
Forse, questa squallida storia potrà insegnare qualcosa di positivo: qualunque vicenda deve essere valutata nel suo complesso. Perché spesso le cose non sono sempre e solo quelle che appaiono a prima vista. Ma soprattutto imparare a conoscere le regole che tutelano i nostri dati personali può aiutare a muoversi in un mondo digitale che è sempre meno distinto dalla nostra vita reale.
Vitalba Azzollini e Christian Bernieri